Un oceano di rifiuti

26 aprile 2014 | 17:21
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Un oceano di rifiuti
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Un oceano di rifiuti
Un oceano di rifiuti

L’affondamento in mare di rifiuti radioattivi – si scrive in un report Enea del ’90 dal titolo Indirizzi generali e pratiche di gestione dei rifiuti radioattivi – è stato un metodo di smaltimento largamente utilizzato in passato”. 

Nel ’90 dunque, e nonostante 8 anni prima fosse entrata in vigore la Convenzione di Londra che sospese il metodo per l’ovvia pericolosità, l’Enea ancora affermava che “lo scopo delle operazioni di affondamento in marenon è, dunque, quello di realizzare necessariamente un contenimento assoluto mediante contenitori stagni e resistenti alla corrosione per tutto il tempo in cui i rifiuti sono attivi, ma piuttosto quello di allontanarli dall’ambiente direttamente interessante l’uomo”. Un po’ come evacuare la cacca più a largo sperando che non torni sul bagnasciuga insomma.

Le discariche oceaniche. Per capire la portata di quella che Enti governativi prima del 1982 definivano dispersione in ecosistemi aventi solo tenui e indiretti legami con lecatene alimentari e l’uomo, l’Enea ci dice per esempio che solo gli Usa tra il ’51 e il ’67 hanno riversato nell’Atlantico circa 34mila containers, per un’attività radioattiva totale intorno a 80mila Curie (Ci, 10milaCi equivalgono a 370 Tera Bequerel, ndr). In realtà il Dipartimento del commercio Usa ci informa che di containers ne sono stati smaltiti 90mila, l’80% dei quali nell’Atlantico, a 120 miglia a sud est dalle coste newyorkesi. Nelle Isole Farallon, tra 25 e 60 miglia oltre la costa del Pacifico invece, vengono ufficialmente scaricati 47.500 containers per un’attività di 14mila Ci (1/1000 per l’attività beta-gamma annuale e 1/10000 per l’alfa, stando ai limiti internazionali, ndr). Come si vede lo scaricato alle Farallon non rappresenta certo il 20%. Ma è interessante di questa storia la rendicontazione approssimativa, applicabile a tutti gli Stati che hanno smaltito e permesso di smaltire in questo modo. La Gran Bretagna (GB), stando all’Enea, tra il ’49 e il ’66 ha buttato a picco circa 50mila containers per un totale di 45mila Ci di attività radioattiva. Dal ’49 al ’82 il regno di sua maestà d’Inghilterra ha affondato bidoni per circa 2.700 tonnellate l’anno. Un totale di 89 milioni di chili. Negli anni ’60 poi, vari paesi europei ebbero problemi derivanti dal progressivo accumulo di grandi quantità di rifiuti radioattivi. Di fronte alle difficoltà, “particolarmente gravi” per Belgio Olanda e Svizzera, la Nuclear Energy Agency (NEA, ndr) organizzò nel ’67 la prima d’una serie di operazioni internazionali di affondamento in mare sotto la sua sorveglianza. Operazioni andate avanti quasi ogni anno sino al ’76 con la partecipazione regolare di GB, Belgio, Olanda e in una o due occasioni Svizzera, Francia, Germania, Svezia, e Italia.

L’evacuazione nucleare. Le operazioni ampiamente documentate consistevano nell’andare a largo pieni di bidoni e scaricarli in fondo al mare (foto1). Tutto qua. Al resto ci avrebbe pensato l’Oceano. Dove ce lo dice una cartina (vedi foto cartina Aree di smaltimento). Dal ’50 al ’63 la lungimirante GB ha scaricato circa 19milioni di chili di rifiuti radioattivi persino nel canale La Manica, dove la profondità massima, spiega la Treccani, è di 172 metri (altro che isolati abissi), con correnti di riflusso verso Sud-Ovest, cioè verso le coste francesi e spagnole. A poco più di 200km dalle stesse coste sempre la GB, assieme al Belgio in un’occasione, ne scarica circa 11 milioni di chili. Da 500 a 700Km sulla stessa direttrice di costa (qui per fortuna andiamo oltre i 4.000 metri), sempre GB protagonista, ma questa volta assieme a Belgio, Francia, Germania, Olanda, Svizzera, Svezia e Italia, ne scarica circa 19 milioni di chili. L’Italia partecipa con un piccolo lotto di 100 bidoni dice l’Enea. 50.000kg solo italiani buttati a 4000m di profondità (foto2). In quest’area producono un’attività radioattiva di 1.641Ci per gli alfa emettitori, e 131.624Ci per i beta-gamma emettitori. In una operazione del ’67, poco oltre 200km le coste portoghesi, GB, Belgio, Francia, Germania e Olanda di chili ne scaricano circa 11 milioni. A poco più di 300km dalle coste portoghesi (700 da quelle francesi e spagnole), dove le correnti oceaniche verso lo Stato portoghese non scherzano, dal ’71 al ’82 GB, Belgio, Francia, Olanda e Svizzera ne scaricano ben 84 di milioni di chili di rifiuti, per un’attività radioattiva quantificata in 13.052Ci alfa, 853.952Ci beta-gamma, e 411.086Ci tritio. Tra i 200 e i 400km dal Marocco sempre la GB ne scarica circa 13milioni di kg. Avrà comportato qualcosa creare questa enorme discarica radioattiva atlantica?

Quei controlli discreti e approssimativi.Nel ’54 il Dipartimento del commercio statunitense già s’era occupato di smaltimento dei rifiuti radioattivi nell’Oceano. Raccontava come si dovevano smaltire e assicurava, “è tutto apposto, si può fare”. Calcolava però sia una contaminazione diretta (la quantità di isotopi radioattivi in diluizione nell’acqua), sia una indiretta. “Il maggiore inquinamento – ricordavano – si verificherà probabilmente tramite l’accumulo di isotopi radioattivi in organismi consumati come cibo dagli esseri umani”. Calcoli assolutamente inutili viste le innumerevoli incognite nella pratica. Ma si sa quella di dire e non dire è un po’ la tecnica del “bastone e della carota” applicata al linguaggio istituzionale. Nel ’81comunque, altro report del Dipartimento. Anche questo con un titolo rilassante sui rifiuti radioattivi scaricati nel Pacifico e nell’Atlantico. Da una lato dicevano che l’inquinamento era stato enfatizzato e che l’Ente di controllo ambientale (Epa, ndr) aveva garantito che i rifiuti s’erano diluiti senza far danno. Il plutonio, per l’Epa, era intrappolato tranquillo nei sedimenti. Di correnti oceaniche e pesca a strascico nei dintorni nemmeno a parlarne. D’altro canto affermava pure che il 95% di quei rifiuti erano di origine commerciale e che i controlli che erano stati effettuati in quel periodo dall’Atomic Energy Commission su quantità e tipologia erano parecchio “discreti e approssimativi”. Si riportava genericamente “rifiuti atomici”. Quindi non si sapeva effettivamente cosa e quanto fosse stato buttato in mare.

Gli effetti collaterali statunitensi. Un professore dell’Università californiana di Santa Cruz invece, non fu proprio d’accordo. L’anno prima aveva evidenziato che nel sito delle isole Farallon la radioattività derivata dalle passate attività di smaltimento di rifiuti radioattivi era già entrata nella catena alimentare perché presente nelle specie di pesce in vendita. Più quei contenitori si deterioreranno, concludeva, maggiore sarà la contaminazione che ci si dovrà attendere. Quindici anni dopo, uscì sulle Farallon un altro studio. Mostrò che le concentrazioni sia di plutonio 238 sia di americio 241 nei tessuti dei pesci erano particolarmente elevate rispetto ad altri siti nel mondo, inclusi quelli potenzialmente contaminati. “Questi risultati – asseriva – mostrano concentrazioni di plutonio 239 e 240 approssimativamente 10 volte più alte dei valori riportati per identiche specie ittiche dal ’77, e 40-50 volte più alte per il plutonio 238”. Tanto tranquillo dunque, quel plutonio non se ne stava nei sedimenti. Del resto già nel ’54 il Dipartimento del commercio aveva avvertito, lo smaltimento di rifiuti radioattivi nell’Oceano un giorno avrebbe potuto raggiungere proporzioni tali per cui sarebbe stato necessario affrontare conseguenze relative al loro deterioramento. E come non dargli torto.

Una centrale sotto l’Atlantico. Nel nord-est dell’Atlantico non va meglio. Si è prodotta un’attività alfa beta e gamma pari a 42.250 Tera Bq (Tera=mille miliardi, ndr) principalmente in quattro aree (numerate da 1 a 4 nella cartina Aree di smaltimento). Anche se il più blando tritio rappresenta un terzo dell’attività radioattiva totale dei rifiuti scaricati dicono, le aree sono state monitorate negli anni perché quei rifiuti contengono beta e gamma emettitori come cesio134 e 137, stronzio90, ferro55, cobalto58 e 60, iodio125 e carbonio14. Il 2%, dicono documenti ufficiali, è fatto di alfa emettitori con un’attività tra 0,7 e 0,85 Peta Bq (Peta=un milione di miliardi, ndr) dovuta principalmente a plutonio e americio. “Benché sembri una piccola quantità – scrive il governo tedesco in un report – bisogna tenere a mente che il totale degli alfa emettitori rilasciati dall’impianto nucleare britannico di Sellafield è 0,8 Peta Bq”. Rassegnamoci a una Sellafield sotto il mare incontrollabile. Il governo tedesco ci dice pure che lo 0,1% del contenuto di quei containers scaricati sono stati rilasciati nei primi 20anni, che il tempo di logoramento dei bidoni è stimato in 20 anni ma che il tempo di decadimento di radioisotopi come Ferro55 e Plutonio239 va rispettivamente da 30 a oltre 100mila anni. Avrebbero fatto prima a buttarli senza metterli in bidoni. Ma cosa è cambiato dal momento dell’affondamento?

Gli effetti collaterali europei. Sempre i tedeschi raccontano che era stato già calcolato che quei bidoni si sarebbero perforati nel giro di 10-40 anni. Un’ispezione nel ’83 nel sito in cui dal ’77 al ’82 sono stati affondati la maggior parte dei rifiuti radioattivi, riscontrò che i barili erano in buono stato ma che il metallo di alcuni era deformato e aveva iniziato a corrodersi (foto4). L’anno dopo altra ispezione. Risultato? Un bidone aveva perso il coperchio, un altro mostrava contaminazione principalmente da americio241. Anche se in generale è tutto a posto per i tedeschi, scrivono che i risultati confermano che in 3 anni si possono perdere coperchi e tappi a seconda del tipo di contenitore, dopo13/20anni si può avere la rottura e corrosione dei bidoni (in realtà dal ’77 ne erano passati appena 5), c’è inoltre da tener conto del rilascio del 1% annuo di sostanze radioattive con decadimento da 30 a 100mila anni. Un calcolo, dicono, concorde ai risultati ottenuti dagli Usa per il sito delle Farallon. E anche la spedizione tedesca del ’83 riscontra in crostacei, pesci degli abissi e organismi dei fondali come attinie e oloturie al centro dell’area di affondamento del ’67 elevate concentrazioni di Cesio137 e Stronzio90. In altri campioni prelevati nel sito di smaltimento del ’77-’82 trova in organismi dei fondali elevati livelli di Plutonio239-240. I contaminanti che aderiscono ai sedimenti, si scriveva ufficialmente nel 2000, ci restano indefinitivamente. Predire la dispersione di tali sostanze è difficile per i molti aspetti sconosciuti. Dallo stato dei rifiuti, al movimento dei radionuclidi nell’ambiente, agli alimenti consumati da coloro che possono essere probabilmente esposti.

Una storia deviata.Questi dunque gli affondamenti legalizzati. Poi c’è la parte “deviata” della gestione, come scritto pure nella richiesta di archiviazione sui traffici radioattivi di rifiuti da e verso l’Itrec di Rotondella. Quella delle mafie che hanno affondato intere navi sicure di essere coperte da qualcuno. Anche da chi stava al Governo. Quella d’un giovane capitano di vascello che venne eliminato perché cercava proprio quelle navi, 39 ne erano state contate lungo le coste sicule calabre e lucane. Quella del test che affermò come partivano bidoni dai porti di Taranto e Gioia Tauro. Quella d’un medico somalo che aveva precisato l’esistenza di un “flusso di rifiuti contenuti in bidoni” trasportati dall’Italia e gettati in mare presso coste somale, e che raccontava d’aver appreso tutto ciò direttamente dall’ex Ministro della salute somalo nel ’92 che aveva siglato l’accordo tra Italia e Somalia (a discapito della salute dei somali e della salubrità dell’ambiente diceva). Quella del pentito Francesco Fonti che parlò delle navi con bandiera maltese Annie ed Euro River affondate persino nel tratto di mare che va da Policoro a Ginosa mentre per la P.G. di quelle navi che sarebbero state affondate nello Ionio non sapeva granché. Quella di un altro teste “attendibile” che aveva parlato di movimenti di svariate migliaia di miliardi di lire che transitavano su conti bancari. Ma è un’altra storia questa. Una storia deviata.

-L’inchiesta continua-