Rifiuti tossici dalla Lombardia alla Basilicata

22 gennaio 2014 | 10:10
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Rifiuti tossici dalla Lombardia alla Basilicata

Una storia scomoda. Nel ’91 s’iscrive nel registro delle imprese la Ecobas srl di Salandra. Ma è nel ’94, cioè nel momento in cui progetta la discarica di Pisticci per rifiuti industriali che, leggiamo in visura camerale, rientra nell’albo nazionale per attività di smaltimento rifiuti.

La Ecobas è parte del Gruppo Iula, assieme alla Bng, che oltre a lavorare per Eni-Agip, S.p.i spa, Enterprise oil italiana spa, Fina, Lasmo Italia spa, come riporta l’Albo nazionale gestori ambientali, può trasportare centinaia di rifiuti tra pericolosi e non. Poi ci sono La Nuova Smil srl ed Ecosud srl che rivolgono la loro attività prevalentemente al settore ecologico e ai servizi tecnici industriali, fornendo supporto a imprese ed enti. Ma c’è una storia di queste imprese che resta come un racconto sospeso nelle dinamiche lucane. Il Gruppo, con la Bng e la Ecobas, risulta agli atti d’inchieste e Commissioni parlamentari sul ciclo dei rifiuti e le attività illecite ad esso connesse. Nel ’97 il sostituto procuratore Franca Macchia sottolineò come in una Basilicata dove non esisteva una realtà industriale particolarmente attiva e un bacino d’utenza locale interessato, vi erano “ben due discariche di rifiuti tossico-nocivi poste a distanza ravvicinata e luogo di destinazione finale di rifiuti di origine prevalentemente industriale”. Rifiuti tossici che partivano dalla Lombardia finivano in discariche lucane, evidenziando un fenomeno di partecipazione allo smaltimento abusivo da parte di molti soggetti che si configurava “inequivocabilmente – dirà la Macchia – come un’attività criminale a carattere organizzato”. La Basilicata veniva definita un “terminale ideale”. I rifiuti tossici pur essendo partiti dal Nord Italia e arrivati in Basilicata non erano stati certamente smaltiti presso le discariche autorizzate, i gestori negavano di averli ricevuti. Venne ipotizzato un reato continuato e una pluralità di episodi che autorizzavano a ritenere che i soggetti si fossero “inseriti professionalmente nella gestione del traffico dei rifiuti”.

Come sono arrivati i rifiuti tossici nei pozzi dell’Eni? Qualche anno dopo, siamo nel 2000, la Commissione territoriale sulla Basilicata ribadì i numerosi sequestri di discariche abusive, da quella Ecobas, nel comune di Pisticci, a quella di Ferrandina, dove venne rinvenuto anche amianto. “Esistono però – concludeva il capitolo dedicato alle infiltrazioni nelle aree non tradizionalmente mafiose senza specificare i soggetti coinvolti – presenze e attività di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti che non consentono più di parlare di isole felici”. La Commissione descrisse altri gravi episodi che confermavano una regione “meta dei trafficanti di rifiuti” che vi trovavano terreno ideale per i loro smaltimenti illeciti. Una regione con la più alta produzione di rifiuti speciali pericolosi, e la scomparsa, presumibilmente dovuta a una “gestione illecita”, di oltre 400 mila tonnellate su 600 mila. “Desta, inoltre, preoccupazione – continuava – il fatto che molte delle discariche poste sotto sequestro nel corso del ’97 erano in mano pubblica, come nel caso di Montalbano Ionico, di alcuni comuni della provincia di Potenza e di Cirigliano, poiché denota la superficialità e la disattenzione, quando non fenomeni di collusione, da parte degli apparati amministrativi preposti al controllo del ciclo dei rifiuti”. Veniva registrata l’attenzione che la magistratura della regione dedicava al tema, e anche se risultava marginale l’infiltrazione della criminalità organizzata, la scoperta di numerose discariche abusive confermava come “l’imprenditoria deviata” considerava la Basilicata un territorio adatto ad attività illegali in tale settore. La preoccupazione era per i numerosi pozzi di prospezione petrolifera abbandonati, in alcuni dei quali era stata accertata la presenza di rifiuti smaltiti illecitamente. Oggi sappiamo di almeno nove pozzi Eni tra Ferrandina e Pisticci risultati inquinati da rifiuti pericolosi come metalli pesanti e idrocarburi. Come ci sono arrivati?

La testing area dello smaltimento. Non cambia la questione se ci spostiamo sull’asse ionico. Nel ’97 la Commissione mise in evidenza anche il sequestro dell’ex zuccherificio di Policoro. Dentro furono ritrovati circa 270 fusti contenenti rifiuti pericolosi mentre nel sottosuolo una discarica illegale con rifiuti d’ogni genere, compreso amianto. Non distanti vennero scoperti due capannoni. Con dentro 570 fusti contenenti rifiuti pericolosi. La Basilicata diventa una sorta di testing area in cui tra gli anni ’80 e ’90 sembra attuarsi un accordo tra mafie sul traffico illecito di rifiuti. Una zona che ha visto altri rinvenimenti di bidoni tossici, come a Fosso Lavandaio nei pressi di Marconia e anche un omicidio collegato a smaltimenti illeciti.

Il livello internazionale. Nel maggio 2003 per la prima volta il pentito Francesco Fonti parla al Pocuratore Francesco Neri di traffici internazionali di rifiuti. Inizia a descrivere una rete inimmaginabile di persone di alto livello coinvolte. Indica l’itinerario. Partirebbero dal Centro Enea in Basilicata e andrebbero in parte interrati sul posto, in parte trasportati in Africa (direttrice africana confermata nell’ultimo report di Greenpeace). Ha dichiarato d’avere notizie certe del trasporto e di conoscere anche i luoghi di interramento in Basilicata. Un’operazione curata assieme a Domenico Musitano, ‘u fascista’, mafioso di Platì (Rc) mandato in soggiorno obbligato a Nova Siri. Il boss di Platì era stato avvicinato dal dottor Tommaso Candelieri dell’Enea di Rotondella che aveva l’esigenza di far sparire 600 bidoni di rifiuti tossici e radioattivi provenienti dall’estero (anche dalla Francia patria di Edf – che gestisce le centrali nucleari ed è già stata denunciata da Greenpeace per gli smaltimenti illeciti di rifiuti radioattivi – e Veolia). ‘U fascista’, dopo le riunioni con le cosche calabresi che si rifiutarono di seppellire veleni in Aspromonte dove i boss facevano le ferie, s’era offerto all’Enea d’effettuare il lavoro sporco in Basilicata e in Africa, terre di nessuno. Musitano venne poi ucciso a Reggio, e Francesco Fonti, che ormai aveva i contatti con il dottor Candelieri, dichiara che ne prese il posto portando a termine l’operazione di seppellimento in Basilicata nel ’87. ‘U fascista’ è comunque il boss che ha battezzato con la “santa” Renato Martorano, lo ha fatto cioè, capo società della ‘Ndrangheta qui da noi. Martorano che, secondo il boss Gino Cosentino era quello che in quegli anni aveva preso in mano il traffico illecito di rifiuti in Basilicata. Cosentino ricorda al Procuratore antimafia Francesco Basentini come l’idea di guadagnare dallo smaltimento di rifiuti venne anche a loro perché l’affare era ghiotto. Il pentito ha dichiarato che con un altro affiliato, Leonardo Stolfi, s’era parlato di non lasciare questo business in mano al Martorano. “Perché – disse Stolfi a Cosentino – dobbiamo lasciare tutto in mano a Renato? Là frutta un sacco di soldi”. Stolfi sapeva come muoversi – ricorda ancora – prima infatti stava con la ‘ndrina di Martorano e Gianfredi (Giuseppe, ndr) che si occupavano anche di questo. “Smaltivano rifiuti – dice Cosentino – che erano difficili da smaltire e lui (Martorano, ndr) li faceva arrivare dietro forti compensi”. Poi a un certo punto Gianfredi, l’eminenza grigia, venne freddato sotto casa assieme alla moglie. Quanti prestanome, quanti soldi che giravano. Gianfredi si metteva in mezzo, e vincevano un appalto. Ma aveva deciso d’allontanarsi l’Eminenza, e Renato gli ricordava di essere stato abbandonato proprio durante gli anni di carcere, nel periodo che aveva sofferto”. Oggi Fonti, di cui sono accertati persino pagamenti da parte dei Servizi segreti su un conto corrente fittizio, continua a sostenere il seppellimento in Basilicata, denunciando di non aver avuto la protezione adeguata per rivelare il punto e la rete inimmaginabile di soggetti di alto livello dietro il traffico.

Quella vetrina chiamata Enea. Un mese dopo la data del presunto seppellimento nella zona del torrente Vella individuato dal Fonti, l’allora Coordinatore regionale di Legambiente, Domenico Lence, presentò l’esposto n. 104 al sindaco di Ferrandina (operativo all’epoca dei fatti nella Commissione antimafia), al Presidente della provincia e al Presidente della Usl n. 6 di Matera. Si legge che a seguito di sopralluoghi effettuati lungo il torrente vennero raccolte testimonianze di allevatori che affermarono “una certa frequenza di aborti, malformazioni e morie negli allevamenti della zona” che l’usuale abbeveraggio di ovini e bovini aveva provocato. Effetti simili a quelli testimoniati da cittadini, lavoratori e agricoltori nei pressi del Centro Enea di Rotondella. Il Procuratore Nicola Maria Pace, che s’occupò dell’indagine, in Commissione ha ricordato per l’ennesima volta le strane movimentazioni che facevano ipotizzare un’attività di smaltimento illecito (tratto di congiunzione con quanto faceva la procura di Reggio Calabria) e la presenza nel Centro di materiali di provenienza esterna. Precisamente: 14 container di rifiuti ospedalieri radioattivi, che Franca Macchia, che aveva lavorato con Pace, descrisse come un “filone trascurato” in quanto “essi – disse – costituiscono una tipologia vastissima all’interno della quale esistono anche rifiuti biomedicali con caratteristiche di radioattività che rappresentano un business per chi se ne appropria e che sono gestiti da pochissime società: non si conosce l’effettiva forma di smaltimento finale di questi rifiuti”. E poi una serie di fusti da 200 litri l’uno che contenevano testine di americio (propagano radioattività per 4000 anni, ndr), 6.000 fusti di terreno decorticato dal suolo, un magazzino con uranio, torio, e dove doveva esserci il pericolosissimo plutonio che non fu mai trovato (la contabilità risultò non veritiera). E ancora: impianti di stoccaggio rifiuti con liquidi ad alta attività e a maggior rischio. Quando il Presidente Gaetano Pecorella gli chiede se individuarono imprese che avevano effettuato la movimentazione dei materiali, Pace risponde che era proprio quello il filone d’indagine che lo portò a collegarsi con la Procura di Reggio Calabria. Afferma che furono fatti accertamenti sulle segnalazioni di camion che entravano e uscivano di notte, e che questo non era un “fatto normale” per un luogo così controllato. Risultò che i registri contabili, proprio quelli che riguardavano materiali esterni e dovevano avere una caratterizzazione come rifiuti con le specifiche di trasporto, erano stati custoditi in un armadio metallico che fu trovato vuoto. Spariti dunque. Guido Garelli – c’è scritto in un report di Greenpeace del ’97 sui traffici internazionali di rifiuti tossici – che alla fine degli anni ’80 assieme a Luciano Spada fu uno degli organizzatori del “Progetto urano” che prevedeva l’esportazione di milioni di tonnellate di rifiuti, anche radioattivi, verso l’ex Sahara spagnolo e nella zona del Corno d’Africa, usò una frase per definire quanto avveniva alla Trisaia: l’Enea era una vetrina.