Il decreto anti corruzione è la solita italianata

12 giugno 2012 | 23:49
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Il decreto anti corruzione è la solita italianata

Ho letto il ddl cosiddetto “anti corruzione”. Non mi chiedete quale testo, un testo qualunque. Ho capito poco, anzi pochissimo. Eppure quel testo dovrebbe essere comprensibile ai cittadini, senza la mediazione degli avvocati. Da ignorante mi sono fatta un’opinione a caldo: quel decreto è un pastrocchio. Un’italianata delle solite fatta di parole incrociate e di richiami normativi allegati a memorie giuridiche utili alla mediazione tra falchi e colombe. I falchi che insistono sul garantismo, le colombe che adocchiano il trucco. E’ un Paese che non vuole combattere la corruzione. Emerge chiaramente nel testo. Un decreto inutile, perché non afferra la questione di fondo. Scritto da un governo di tecnici, ma sottoposto al giudizio dei Partiti e del Parlamento.  Il Governo pone la fiducia, ma su un testo rimaneggiato in nome della “più ampia condivisione”. A che serve allora la fiducia?

La solita italianata

Ma il tema è un altro. La corruzione non si combatte con un disegno di legge. E neanche con l’aumento delle pene.  Assolutamente no. Dal fronte della magistratura le critiche sono quasi tutte concentrate sul campo delle pene. “Bisogna spiegare al condannato e alla collettività che corruzione e concussione non pagano”, dicono i sostenitori della soluzione giudiziaria. Quindi inasprire la punizione. “Smettiamola di dire che la corruzione si combatte modificando il falso in bilancio”, dicono quelli che vorrebbero contrastare le soluzioni giudiziarie. Il ddl rinvia molto alla capacità e all’efficienza della Pubblica Amministrazione. E cioè a quella stessa burocrazia spesso coinvolta nei casi di concussione e corruzione. Sembra una sorta di richiamo dello Stato a se stesso. Deludente. Se parliamo di contrasto, ma non di lotta,  alla corruzione, va tutto bene. Inasprimento delle pene, modifica del falso in bilancio, e quello che si vuole. Ma ho la sensazione che questa ennesima italianata servirà a nulla.

Cultura da matti

Perché? Semplice, il nostro è un Paese fondato su un adagio popolare: “vivi e lascia vivere”.  Quante volte avete sentito queste parole? E quante volte nella nostra vita abbiamo riscontrato atteggiamenti del tipo “Francia o Spagna purché si magna”? L’anima della concussione e della corruzione vive di cultura. La cultura della paura, dell’ignavia e dell’ingordigia. Una società decadente e indifesa dove il carnefice è allo stesso tempo protettore della vittima. Dove la reputazione si può vendere e acquistare. E allora? Niente, allora niente. La corruzione si sconfigge nel piatto dove mangia, nella cultura. Alla sub cultura della paura, dell’ignavia e dell’ingordigia, bisogna contrapporre la cultura della ragione. E’ ragionevole essere una persona per bene, è ragionevole denunciare ogni abuso, è ragionevole una vita degna che non ha bisogno di castelli e principesse. E’ ragionevole partecipare alla vita pubblica e prendere posizioni, esprimere opinioni. Anche se qualcuno insiste col dire che questa ragionevolezza è roba da matti.

Dunque

La cultura anti corruzione si produce nella scuola, nelle università, nelle famiglie, in tutti gli spazi di costruzione della cittadinanza. Sarebbe naturale che la battaglia contro la corruzione avvenisse sul terreno della buona politica e della buona amministrazione. Sarebbe naturale sostituire la paura con la fiducia, la sopravvivenza con la vita. Ma questa è roba da matti. Già, magari roba da Don Chisciotte. Insegnanti che non sanno insegnare, docenti che salgono in cattedra grazie allo zio o al nonno baroni dell’ateneo, famiglie invase dalla politica clientelare ed assistenziale, partiti avviluppati nel gioco delle consorterie, amministrazioni pubbliche coinvolte nel giro delle carriere individuali e” immeritocratiche”, aziende che  si scambiano favori con i politici, sindacalisti che fanno i cazzi loro alle spalle dei lavoratori. Tutto questo non esiste nel decreto anticorruzione. Ma è previsto che “Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque annni”. Però!