“Quando hanno aperto la cella”

23 novembre 2011 | 13:56
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“Quando hanno aperto la cella”

Quelle foto di Stefano Cucchi. Quel corpo prosciugato, quella maschera di ematomi sul viso (…) Quella morte di Federico Aldrovandi, quel giovane riverso a terra, quelle mani ammanettate dietro la schiena, esanime. Quelle urla di Giuseppe Uva, dentro la caserma (…) E tutte le altre storie, rimaste ignote, oppure richiamate da un trafiletto di giornale, e già dimenticate. Giovanni Lorusso, Marco Ciuffreda, Marcello Lonzi, Eyasu Habteab, Mija Diorievic, Francesco Mastrogiovanni, Katiuscia Favero, Aldo Bianzino, Manuel Eliantonio, Niki Aprile Gatti, Carmelo Castro.

Presentato martedì 22 novembre 2011 presso la Biblioteca Provinciale di Potenza dagli autori Luigi Manconi e Valentina Calderone, “Quando hanno aperto la cella” è il racconto di vite assurdamente stroncate all’interno delle carceri; di persone sovente giovani, che entrano vive nei luoghi di custodia e detenzione, per uscirne morte. Un libro non crudo in sé, ma lucida documentazione di vicende di crudeltà non infrequenti in spazi sottratti agli sguardi collettivi, luoghi preposti alla tutela e al reinserimento, ove può accadere che consuetudini detentive, non preponderanti ma nemmeno occasionali, travalichino l’ambito della custodia per degenerare in abuso, accanimento punitivo.

“(…) all’interno di apparati delegati all’esercizio legittimo della forza, la tendenza a superare i limiti previsti e a forzare i confini della legalità è un fattore in qualche modo ineliminabile e comunque non agevolmente controllabile. E che, in ogni caso, richiederebbe una vera e propria ‘strategia di autocontrollo della forza’(…) tutta da elaborare.”

“(…) Nei fatti, il ricorso alla forza, ma anche agli strumenti tecnici che la esercitano, è regolato piuttosto da un linguaggio non verbale e da un codice non scritto, dove è consentito assai più di quanto la legge permette e dove l’elemento della discrezionalità gioca un ruolo decisivo.”

Appello improcrastinabile alla memoria, il libro non accorda deleghe all’indifferenza e accende un riflettore sull’iniquità del processo di rimozione sociale inferto al recluso: quella sorta di automatismo che induce la “società buona” ad estromettere il segregato, il borderline, dalla propria sfera d’interesse, in quanto concentrato di negatività, evocativo di paure e inquietudini, fastidioso, dunque “insopportabile”; in aggiunta alla privazione della libertà, che già implica l’oscuramento corporeo e psichico, al recluso viene inflitto l’oblio collettivo, il suo depennamento sociale oltre che fisico: reietto, espulso dalla vista e dalla memoria, egli muore non una, ma due, infinite volte. Ed è in tale vulnerabile condizione d’invisibilità che si consumano, con un’incidenza da non potersi giudicare casuale, drammi e abusi di potere; è nel lembo degli spazi sottoposti a “discrezionalità”, oscurati alla pertinenza collettiva – carceri, ospedali psichiatrici giudiziari, Cie, ma anche piazze di manifestanti – che trovano la morte persone per lo più giovani e per lo più non colpevoli di grossi crimini, nei confronti delle quali viene con sistematicità intrapreso, a livello macromediatico e istituzionale, un processo di stigmatizzazione: a morire sono “sempre” tossicomani, epilettici, stranieri immigrati, personalità borderline, persone insomma, che in qualche maniera,“se la sono cercata”.

“(…) lo stato di debolezza(…) non è più la chiave di un’interpretazione empatica o perlomeno ‘compassionevole’ del disagio, bensì la cifra dello stigma che fa sospettare una possibile colpa. Non a caso, l’epilessia e l’anoressia (indubitabilmente malattie) vengono accostate, in un’elencazione quasi minatoria, alla sieropositività, anch’essa una patologia, ma che può far risalire a una ‘colpa’ come l’assunzione di sostanze stupefacenti”

Il libro, pur dichiarandosi “non un atto di accusa contro la polizia e le forze dell’ordine in generale” non lesina la propria denuncia nei confronti di “questo o quel membro di un Corpo dello Stato che abbia abusato delle proprie prerogative e del proprio potere.”

Una nota di elogio è rivolta al coraggio e alla tenacia delle donne (madri, sorelle, figlie, mogli, compagne delle vittime dei carceri, delle caserme, degli ospedali psichiatrici giudiziari, dei Cie), mediatrici delle relazioni e degli affetti in vita e, oltre la vita, mediatrici tra la morte, inaccettabile perché mistificata e la ricerca della verità; la donna si rivela in grado di superare lo stadio del dolore privato, per socializzarlo: in questa trasposizione della sofferenza personale alla dimensione pubblica si addensa la straordinaria valenza politica della sua caparbietà, che nella ricerca della verità, rivendica l’affermazione di uno Stato di Diritto e lo sottrae alla morte.