La Somalia sotto attacco Usa

9 settembre 2011 | 18:24
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La Somalia sotto attacco Usa

Lo spettro del terrorismo è utile scudo per l’ennesima guerra silenziosa dell’America nel continente Africano. Il 24 giugno un drone statunitense ha lanciato missili contro una base terrorista in Somalia. Il drone ha bombardato gli Shabaab, il movimento filo al Qaida che controlla metà della Somalia e assedia il governo nella capitale Mogadiscio.

Cosa è un drone?è uno strumento di operazioni clandestine della Cia, che nove volte su dieci colpiscono un paese con cui l’America non è in guerra e di cui nessuno alla Casa Bianca è autorizzato ad ammettere l’esistenza.

Gli attacchi dei droni continuano nel vicinissimo Yemen. Anzi, il New York Times ha anche dato notizia della costruzione di una base americana per i droni “vicina allo Yemen”, e quindi anche vicina alla Somalia: è il segno certo che Washington pensa che le operazioni sul nuovo fronte saranno durature. Infine è arrivata la notizia dell’arrivo di droni americani in Uganda e in Burundi, i due paesi che in questo momento guidano le operazioni militari dell’Unione africana nella capitale somala, Mogadiscio. Dopo Afghanistan, Iraq, Pakistan, Libia e Yemen, la Somalia è il sesto paese – nota il Washington Post – dove il presidente Barack Obama sta autorizzando bombardamenti con i droni.

Nasce spontanea la domanda: perché proprio l’Africa?

Cosa è Africom. Nel 2007, la Casa Bianca annunciò la formazione del Comando Americano per l’Africa (AFRICOM): un nuovo centro di direzione militare unificata del Pentagono in Africa. Tale penetrazione militare nel continente nero era stata presentata come un’ulteriore protezione umanitaria per la guerra globale al terrorismo. Nel 2008, la creazione dell’AFRICOM ebbe un’interruzione perché nessun alleato africano accettò l’insediamento di basi o contingenti americani sul proprio territorio. L’unico paese ben disposto fu la Liberia. L’intero continente africano non accettò neanche la proposta di insediare 5 uffici regionali più piccoli, destinati a ricevere un coordinamento dalla Germania. Non potendo avere basi direttamente sul suolo africano, il quartier generale di AFRICOM è rimasto l’Europa, soprattutto la Germania. L’Italia, però, non si può lamentare. Al contrario di quanto ha fatto la Spagna, il governo italiano ha assecondato le richieste americane immediatamente. Attualmente, la componente navale dell’AFRICOM è a Napoli, mentre quella terrestre a Vicenza. Anche la base di Camp Darby e quella di Sigonella hanno un ruolo attivo.

Bisogna sapere che nella suddivisione geopolitica statunitense del mondo, il pianeta è diviso in “comandi”, ognuno dei quali abbraccia un’area geografica. Così abbiamo lo USUECOM (Comando americano per l’Europa), USPACOM (Comando americano del Pacifico), USCENTCOM (Commando americano per il medio oriente, compresa la conduzione delle operazioni militari in Iraq ed Afghanistan), USNORTHCOM (Comando americano per il nord america), USSOUTHCOM (Comando americano per il sud america) e se prima l’Africa apparteneva al comando europeo, da qualche anno è stato istituito anche per lei un comando apposito: l’AFRICOM. Tra gli obiettivi di AFRICOM vi è anche quello di contrastare la “pirateria” e i terroristi somali.

Il vero obiettivo di Africom. Le  finalità sostanziali di AFRICOM non sono legate alla lotta al terrorismo, questo è il presupposto per autorizzare bombardamenti e guerre nel tacito consenso dell’opinione pubblica. Il nuovo tipo di guerra fredda in atto in Africa ha radici sostanzialmente economiche, che vedono contrapposti i grandi potentati economici: quello occidentale contro quello asiatico per l’accaparramento delle risorse.

Da anni, infatti, la Cina si è fatta un largo mercato con investimenti e prestiti a costo zero per aggiudicarsi concessioni petrolifere e minerarie in Africa. Se si aggiunge che l’imperialismo cinese somiglia molto a quello romano dei primordi, ovvero sembra rispettare la sovranità nazionale del paese che lo ospita, risulta dunque molto più favorito rispetto a quello statunitense. Interessi condivisi, quelli USA, con il mercato francese nell’area del Magreheb, soprattutto nelle aree in cui è fiorita la cosiddetta “primavera araba”. Basti pensare che il continente africano, solo la fascia occidentale, fornisce il 15% del petrolio importato dagli Stati Uniti che nel 2015 arriverà al 25%, secondo la stima della marina americana.