Il “gabbiano di frontiera” si racconta

26 settembre 2011 | 18:01
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Il “gabbiano di frontiera” si racconta
Il “gabbiano di frontiera” si racconta
Il “gabbiano di frontiera” si racconta

Pino Scaccia è stato uno dei reporter storici del Tg1 Rai. Ha seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi vent’anni: dalla prima guerra del Golfo al conflitto serbo croato, dalla disgregazione dell’ex Unione Sovietica fino alla crisi in Afghanistan, oltre al difficile dopoguerra in Iraq dove è stato l’ultimo compagno di viaggio di Enzo Baldoni. Oltre ai numerosi reportage in tutto il mondo (è stato il primo giornalista occidentale ad entrare nella centrale di Chernobyl dopo il disastro ed a scoprire per primo i resti di Che Guevara in Bolivia), si è occupato spesso di cronaca con particolare riferimento a mafia, terrorismo e sequestri di persona oltre a terremoti e disastri naturali. Ha vinto, fra gli altri, il premio cronista dell’anno per lo scoop su Farouk Kassam, il Premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi per i racconti di guerra e il Premio giornalistico “Città di Salerno” (2005) di cui è anche presidente onorario.

A distanza di pochi giorni dalla pubblicazione di due libri “Lettere dal Don” e “Shabab”, Pino Scaccia ripercorre la sua lunga carriera di inviato in un’appassionante intervista in esclusiva per i lettori di Basilicata 24 esprimendo, un’opinione tutta personale sul ruolo del giornalista oggi in una società sempre più tecnologicamente informatizzata.

Benvenuto su Basilicata24 Pino, e grazie per aver accettato questa intervista. Innanzitutto ti presento: reporter di guerra, inviato speciale, blogger, redattore-capo dei  servizi speciali del TG1, scrittore. Ma chi è realmente Pino Scaccia?

Tutto questo. Tanti ruoli per un unico impegno: quello di reporter. In una società ormai multimediale è naturale che io usi tutti gli strumenti.

Ci racconti, brevemente il tuo percorso professionale?

Scrivo fin da ragazzino, cominciando a collaborare con giornali romani. Ma per avere il contratto sono andato ad Ancona, al “Corriere Adriatico”. Professionista dal 1974, sono entrato alla Rai nel ’79. Trasferito al Tg1 nel 1987. L’anno dopo ero già inviato, sempre in prima linea.

Fare il giornalista è sempre stata la tua massima ispirazione? Se non avessi avuto questa opportunità quale pensi sarebbe stato il tuo lavoro? Cosa ti sarebbe piaciuto fare?

Da ragazzino sognavo due cose: viaggiare e scrivere. Mi sento fortunato: sono riuscito ad avere un lavoro che mi permette entrambe le aspirazioni. E mi pagano addirittura… Se non fossi riuscito a fare il giornalista? Beh, un anno ho lavorato all’Alitalia. Magari non avrei scritto, ma sicuramente avrei viaggiato…

Quali sono stati i tuoi maestri o le figure che ti hanno incoraggiato in questo percorso e alle quali ti senti riconoscente?

Tutti quelli che all’inizio mi hanno aiutato e che hanno creduto in me: Gherardi, Melillo, Roscani, Beni. Poi alla Rai ho avuto tanti direttori amici e un grande maestro: Roberto Morrione.

Hai mai considerato il tuo lavoro una missione?

Definirlo una missione mi sembra esagerato, ma certamente non è un lavoro qualsiasi, per farlo bene bisogna crederci. Il ruolo del testimone è molto importante.

Cosa hai conquistato e cosa perso a causa del tuo lavoro?

Sicuramente non ho avuto per tanti anni una vita privata, mi sento tuttavia un privilegiato perché ho partecipato direttamente al cambiamento della storia.

Hai incontrato tantissimi personaggi che hanno fatto la storia del nostro XX secolo. Quale intervista ti è rimasta ‘dentro’?

Fra quelle più intense sicuramente quella a Lech Walesa che parlava di Papa Giovanni Paolo II. C’era una forza interiore indimenticabile.

Come molti personaggi famosi anche tu possiedi, un diario on-line condiviso da milioni di utenti, un sito internet e soprattutto mantieni interattivo il tuo rapporto con chi ti segue attraverso il social network per eccellenza: facebook. Com’è cambiata oggi la comunicazione e quali sono le ricadute positive sull’informazione che tali strumenti possono secondo te offrire.

Certamente i social network svolgono un ruolo importante, favoriscono le comunicazioni interpersonali. Però invito a diffidare di Internet: è uno strumento fantastico ma nasconde molte insidie. Guai a pensare che tutto il mondo cominci e finisca lì. C’è il rischio di manipolazioni. Le informazioni insomma si sono moltiplicate, e questo è sicuramente positivo, ma bisogna saper distinguere.

Pensi che l’utilizzo di simili strumenti, implichi un controllo sulla circolazione delle notizie solo da parte delle èlite maggiormente alfabetizzate dal punto di vista informatico o ritieni che internet, essendo una rete mondiale, contribuisca allo sviluppo di un dialogo, addirittura planetario?

Con Internet è realmente nato il villaggio globale. Tutti noi assistiamo a quello che succede nel mondo nello stesso momento in cui accade. Era impensabile una volta seguire direttamente, che so, una rivolta a Teheran. Però, come dicevo, non bisogna prendere tutto per oro colato.

Secondo te i nuovi media possono soppiantare completamente quelli tradizionali?

Assolutamente no. Infatti una notizia diventa veramente notizia solo quando da internet passa su un “media” tradizionale.

Un detto dice: “Libera informazione in libero Stato”. Pensi che un giornalista sia veramente libero di fare informazione senza condizionamenti e controlli di alcun genere?

Magari. Non esistono più editori puri e chiunque finanzi un organo d’informazione ha i suoi interessi: politici od economici. Si può esser liberi solo se si è editori di se stessi, ma certo è un’illusione pensare che un blog, per esempio, possa incidere.

Trovi che il potere possa manipolare la verità a scapito della libertà d’informazione?

La verità è sempre di parte. Ripeto spesso che non esiste la verità, esistono i fatti. I fatti sono incontrovertibili ma le verità sono sempre… numerose.

“Se non diremo cose che a qualcuno spiaceranno, non diremo mai la verità”: questa è la tua frase per eccellenza. Quanto costa dire la Verità?

Non costa niente, se non un pizzico di coraggio nello stare fuori dai grandi sistemi di potere. Insomma, a certi livelli, a rifiutare scorciatoie per far carriera. E’ una scelta, ma ne vale la pena: la libertà non ha prezzo.

Hai mai dovuto raccontare una verità scomoda? Quale?

Il caso più clamoroso resta quello di Farouk, il bambino sequestrato in Sardegna. Sapevo che la polizia stava per compiere un falso blitz, io ho neutralizzato l’operazione anticipando la liberazione. Ho avuto qualche guaio, ma anche tanti riconoscimenti.

Ho sempre ammirato il tuo modo di fare il giornalista per il taglio che davi ai tuoi servizi dai quali emergeva la tua propensione di raccontare le storie della gente che si celavano dietro i fatti. E’ sempre possibile raccontare la miseria, la disperazione, la guerra?

Anche qui è una questione di scelta, anzi di anima. Io ho sempre preferito raccontare la gente, perché attraverso le piccole storie personali è possibile capire la grande storia. La guerra è sempre una tragedia, provocata da interessi, e a rimetterci è sempre il popolo.

Tra i libri da te pubblicati c’è “La torre di Babele. Storie(e paure) di un reporter di guerra”: qual è stata la tua paura più grande in questi anni? Quale invece la tua gioia maggiore?

Paure tante. La più grande forse nel 2004 poco prima di Baghdad: ci hanno inseguito per due chilometri sparandoci contemporaneamente con quattro kalashnikov. L’ho vista proprio brutta.

Perché ami definirti “Gabbiano di Frontiera”?

L’ispirazione viene da una poesia di Cardarelli, credo che rappresenti lo spirito autentico di un reporter di guerra, com’è definito un inviato in zone difficili. Dice: “noi amiamo la gran quiete marina, ma il nostro destino è di vivere balenando in burrasca”.

Quando una persona come te ha visto la morte dinanzi agli occhi più volte o ha visto molti dei suoi amici perderla per fare il proprio mestiere, cosa apprezza maggiormente della vita?

Tutto. Cioè recuperi i valori veri. Dai grandi valori, come l’amore e l’amicizia, ai piccoli piaceri, come un buon piatto di pasta. Dopo che hai visto cataste di cadaveri e hai mangiato un pugno di riso per mesi, ti appare tutto diverso. E fa rabbia vedere quanto sia importante il superfluo per tanta gente.

Spesso in questi ‘viaggi’ nascono grandi amicizie come quella con Enzo Baldoni. Che persona era Enzo e qual è il ricordo più caro che conservi della vostra amicizia?

Era una persona straordinaria. Proprio il suo entusiasmo lo ha tradito. Amava la vita, era curioso, geniale, ho in mente suoi pensieri che mi accompagneranno sempre, veri testamenti.

Pensi che sulla sua storia si sia detto proprio tutto?

Purtroppo no, ed è il mio più grande rammarico. Ci sono storie che non conosceremo mai fino in fondo. Sappiamo tutti chi l’ha ucciso, non sappiamo ancora perché.

Tu hai scelto di fare il reporter di guerra. Cosa pensi invece del giornalismo locale?

Ho grande rispetto per il giornalismo locale, sul serio. Spesso si rischia molto di più, perché un conto è arrivare da inviato e poi andarsene, un conto è vivere in un posto e denunciare anche le verità scomode. Credo oltretutto che quella locale rappresenti il futuro vero dell’informazione.

Dal caso del piccolo Alfredo Rampi a Vermicino nel 1981, con una diretta durata diciotto ore, alla vicenda di Avetrana cosa è cambiato nel modo di fare cronaca; trovi sia opportuno un simile accanimento in nome dell’informazione ad ogni costo?

Chi mi conosce, sa della mia riservatezza, del raccontare sempre in maniera sommessa, del rispetto per i protagonisti. Il caso di Vermicino fu incidentale, cioè nessuno poteva prevedere quello che poi è successo. Comunque si tratta della cronaca di una disgrazia. La vicenda di Avetrana è stata una vergogna per tutta la stampa. Mi dispiace dirlo, ma è l’esaltazione in negativo di un nuovo modo di fare giornalismo. Non appartiene certo alla mia generazione.

Io francamente considero la scrittura come una serie di segni che al pari dei colori dell’artista può essere facilmente assoggettata alla creatività dello scrittore e come solchi incide la superficie andando oltre il silenzio e l’oscurità che ci pervade: tu che valore dai alla  scrittura?

Fondamentale, tutto parte dalla parola. Se sai scrivere puoi anche far “parlare” le immagini. Per molto tempo la parola è stata abbandonata, per fortuna c’è un recupero. La parola ha forza: può essere più violenta di un’arma. O dolce, come una poesia: accarezzare.

Come ti trovi oggi a fare lo scrittore?

Perché mi sono reso conto che non tutto quello che avevo dentro potevo esprimerlo in televisione. Oltretutto lì ho solo il compito di informare. Ma girando il mondo per luoghi così diversi dai nostri ho capito che dovevo racchiuderli in un altro contenitore.

Partendo proprio da “Armir sulle tracce di un esercito perduto” a vent’anni dalla sua pubblicazione ripercorri nuovamente le ricerche storiche sull’armata scomparsa e sulle vicende degli italiani dispersi nel ghiaccio della Russia durante il secondo conflitto mondiale in “Lettere dal Don”. Perché sei così legato a questa vicenda? Cosa ti ha attratto in particolar modo da dedicarle ben due libri?

Il primo è stato casuale. Ho avuto la fortuna di trovarmi a Mosca proprio quando hanno aperto gli archivi del Kgb dopo mezzo secolo di silenzio. Un’occasione incredibile per raccogliere dati addirittura negati per tanto tempo. Il secondo viaggio è nato sulla spinta dei familiari dei dispersi. La loro ricerca è così emotivamente pressante che ho pensato di tornare in quei luoghi alla caccia delle ultime testimonianze.

Oltre a “Lettere dal Don” è di questi giorni anche l’uscita nelle librerie di “Shabab, la rivolta in Libia vista da vicino”. Chi sono gli shabab e qual è la molla che li ha portati ad innescare l’insurrezione?

Gli “shabab” sono i giovani guerrieri. La rivolta è partita dal loro entusiasmo tutto giovanile di rovesciare un regime che soffocava la libertà d’espressione. Ben presto però sono stati strumentalizzati dal mondo occidentale che è intervenuto per motivi molto meno nobili, cioè i contratti per il petrolio.

Ti sarai fatto un’idea: come pensi andrà a finire?

Sicuramente non è stata una vera rivolta popolare, altrimenti Gheddafi dopo sette mesi non starebbe ancora lì. La Libia attraverserà un brutto momento, soprattutto di vendette, e anche di confusione, perché ancora non è ben chiaro chi guiderà il nuovo Paese.

Hai detto in diverse interviste che l’arte ti da emozione: quale opera o artista è in grado di attrarti completamente, fino a perderti? E perché ti piace così tanto?

Un solo nome: Caravaggio. Le emozioni non si spiegano.

Il sociologo Franco Cassano invita a restituire al Sud l’antica dignità di ‘soggetto del pensiero’ ed interrompere l’annosa consuetudine di considerare il Paesi del mondo divisi tra sviluppati e in via di sviluppo che spesso corrisponde alla considerazione che i secondi debbano diventare come i primi. Egli sostiene: “Cantare con la voce degli altri è una falsità. Bisogna cantare con la propria e soprattutto rivendicare alcuni elementi che appartengono al Sud”; guardando ciò che accade nel Sud del mondo e considerando la costante minaccia del terrorismo islamico, non pensi che a volte la presunzione occidentale di misurare tutto con il proprio metro di giudizio realizzi un approccio sbagliato nei confronti di quei Paesi, così lontani da noi, esportando un modello di democrazia che, forse, dovrebbe essere solo confrontato e non imposto?

Intanto, partiamo (noi occidentali) da un presupposto sbagliato: che il mondo sia il nostro mondo. Invece la fetta privilegiata arriva appena al cinque per cento, dunque il mondo è un altro. Poi abbiamo anche la presunzione di pensare che il nostro sia il miglior mondo possibile. La grave crisi che sta attraversando il nostro sistema dimostra probabilmente il contrario. Sto scrivendo, a fatica,  un settimo libro sulla fine dell’impero. Ovviamente l’impero è quello occidentale. Oltretutto, in virtù della crescita zero, anche fisicamente siamo destinati tra non molto a non essere più in posizione dominante.

Le sue considerazioni circa il pensiero meridiano concernono, anche, l’allontanamento dal fondamentalismo della modernità. Egli suggerisce, infatti, di riscoprire la dimensione alternativa alla velocità occidentale: quella della lentezza, l’unica che ci permette di osservare i particolari che solitamente sfuggono al nostro sguardo e di modificare il ritmo del nostro andare, procedendo lenti, per poter costruire insieme un pensiero nuovo, carico di buon senso. Tu che da sempre, per motivi di lavoro, non sei legato mai ad un posto fisso, che usi tecnologie veloci, che sei sempre in lotta per la sopravvivenza che significato dai al tema della lentezza?

Purtroppo per lavoro sono legato ai tempi. Ma la rivoluzione tecnologica ha rovinato anche il mestiere d’informare: la velocità nega la possibilità di approfondire, tutto è ingoiato dal pubblico senza capire, perché nessuno glielo spiega. Poi vai in Africa e hai la certezza che il tempo è solo una convenzione. La giornata si apre all’alba e si chiude al tramonto: tutto il resto è un “accordo”. Se dovessimo misurarci con l’orologio biologico avremmo molte sorprese. Se a un africano chiedi: quando comincia la riunione? Lui ti risponde: quando siamo tutti. Ecco quello che c’è da riscoprire.

Quando Pino Scaccia è solo, lontano dai fragori delle bombe, dal caos cittadino, magari immerso nel buio della notte, a cosa pensa?

Ho un esercizio semplicissimo: mi addormento pensando a cose piacevoli. Mi hanno spiegato che durante il sonno si metabolizzano le ultime…informazioni. Beh, non voglio correre il rischio di portarmi dietro tutte le bruttezze che ho visto.

Sei mai stato in Basilicata? Se sì cosa ti ha lasciato questa terra?

Ricordo da ragazzo una visita a Matera. Stupenda: la città dei sassi, territorio di grande forza. Sono anche stato a Potenza per lavoro, ma ricordo soprattutto una vacanza a Nova Siri, piacevolissima.

Che consigli daresti a quei giovani che vorrebbero affrontare la carriera di giornalista?

Di non affrontarla… Scherzo, è il test che in genere si usa. Se uno poi è cocciuto e insiste, vuol dire che è dotato di autentica passione. Quello del giornalista non è un mestiere qualsiasi, ci vuole la molla per riuscire. E spesso neanche basta.

Un’ultima battuta per lasciare i nostri lettori di Basilicata24 prima di salutarci: cosa gli vorresti dire?

Di restare e battersi per la propria terra. Carmelo Bene diceva che “noi siamo quello che siamo stati”. Ho sempre pensato del resto che siano i luoghi a fare le persone e non viceversa. La gente del sud ha una forza che gli altri non hanno perché è abituata a lottare. Sfruttatela.