Basilicata: la “disonorata società” e le cricche di potere

2 luglio 2024 | 12:41
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Basilicata: la “disonorata società” e le cricche di potere

Dal ricatto al riscatto: la cultura della paura e la necessità di ribellarsi

“Ho paura” è un’affermazione che ascoltiamo più volte in redazione pronunciata da cittadini che avevano e hanno bisogno di sfogarsi, senza che quello sfogo si trasformi in una denuncia pubblica o in un esposto alle autorità giudiziarie. Abbiamo in mente alcuni episodi emblematici che danno riscontro dell’incapacità di reagire agli abusi, alle ingiustizie e persino ai danni subiti. Segno che ci sono ampie sacche di potere, tra loro intrecciate, capaci di forti coperture anche da parte di coloro che dovrebbero opporsi e ribellarsi. Questi episodi sono veri, ma li raccontiamo come se fossero accaduti in luoghi di fantasia e in altri contesti distanti dalla scena in cui sono realmente verificati.

Va a fuoco un laboratorio, qualcuno si fa male, ma i capi mettono tutto a tacere e minacciano i lavoratori: ripulite tutto, e se qualcuno parla sarà licenziato. Accade in un ente pubblico. Nessuno parla, qualche confidenza agli amici fidati, niente altro. “Abbiamo paura”.

Il datore di lavoro prima di assumerti a tempo determinato così come ha concordato con il politico di riferimento, te lo dice chiaramente: non posso assumerti con il livello di inquadramento previsto nel contratto per le tue mansioni, perciò se non ti va bene dillo subito, naturalmente scordati la tessera del sindacato. Il disoccupato accetta, tra l’altro è un regalo del politico che ha votato. “Ho paura di rifiutare”.

Il datore di lavoro ti assume ma a una condizione: a fine mese devi restituirgli in contanti, il 25% del salario. L’operaio accetta, meglio il 75% di mille e duecento euro che zero euro. Così fanno in molti in questa azienda, tutti sanno e nessuno parla. Tutti sanno e nessuno si ribella. “Lo sa anche il sindacalista Tizio, ma se parlo perdo il posto, ho paura.”

Il concorso per 10 posizioni in un ente pubblico lo vincono la compagna del capo, gli amici del sottocapo e i parenti del servo di fiducia del capo. Tutti sanno, ma nessuno parla: “ho paura a farmi nemici il capo e il sottocapo, un giorno possono essere gentili anche con me”.

C’è l’appalto per il rifacimento della strada comunale pinco pallo, 120mila euro. È il quarto rifacimento in 6 anni, ma che vuoi arrivano i soldi e che fai non li spendi? Li spendi. La ditta aggiudicataria è quella di turno nel calendario stabilito dal piccolo cartello locale. Prima la ditta Caio, col ribasso del 2,5% e tutti gli altri col ribasso fino all’1,5%. Poi la ditta Sempronio con il 2-3% e così via. In attesa dell’appalto per il risanamento idrogeologico. Qui il piatto è più succulento, sarà la politica a decidere, non il cartello. “Sai, prendono le tangenti al Comune”. Bene allora vai con mille euro da quel responsabile tecnico e registra il fattaccio. “Ho paura”. E così l’andazzo può continuare.

I fatti più eclatanti che coinvolgono il sistema di potere trasversale, li abbiamo raccontati con le nostre inchieste e con i nostri editoriali. Ci fermiamo a questi episodi che appaiono residuali, sporadici, piccoli ma che sono estesi e collocati nel quadro emotivo della paura. Emblematici di una più vasta e potente “strategia della paura” messa in atto da cricche di potere, affiliate a un sistema più vasto di convenienze, compiacenze e interessi non sempre legittimi.

Avere paura, perché qualcuno o una circostanza creata ad arte ti mettono paura, è una dinamica tipicamente “mafiosa.” Quando la mafia siciliana decise nel 1947 di guardare alla Dc in seguito al tramonto del movimento separatista di Andrea Finocchiaro, molti dirigenti provarono a reagire alle rischiose infiltrazioni criminali nel partito. Ma vinse il fronte che, per impedire l’avanzata comunista e indebolire le Camere del Lavoro, adottò tatticamente la possibilità di patteggiare con la mafia nei paesi in cui le sinistre ottennero più consensi nelle amministrative del ’46.  Era necessario “fare paura”, dissero alcuni esponenti democristiani.

Ecco, affinché un sistema di potere possa espandersi e rinforzarsi continuamente occorre che “faccia paura”. Lo si può fare in tanti modi: minacciando licenziamenti o blocchi di carriera, creando impedimenti alla tua azienda, chiudendoti le porte che contano, minacciando fango e ricattandoti in qualche modo. Questa dinamica si registra anche al momento delle elezioni, soprattutto amministrative, quando i mandanti di personaggi discutibili ricorrono a forme di pressione per favorire una lista o un candidato gradito agli esponenti di un qualunque gruppo di potere.

Condizioni di paura le troviamo in molte sfere della società, dell’economia, della politica e delle istituzioni lucane. Contesti di paura o, se vogliamo, cricche di potere, formate da capi e capetti, che usano la strategia della paura, le troviamo nell’università, nella magistratura, nelle aziende, negli enti sub regionali, nelle organizzazioni professionali, nel settore editoriale, nelle banche, negli ospedali, negli uffici.  In molti casi il confine tra persuasione e pressione indebita è molto labile. Le forme di avvertimento sono varie e non sempre percepibili all’esterno del contesto in cui si manifestano. Il gruppo di potere è più rispettato e incute più timore se vanta relazioni di alto livello nei posti che contano. Se può intervenire su decisioni politiche o anche giudiziarie, su deliberazioni e provvedimenti sia a livello locale sia oltre i confini del locale. Se, con una semplice telefonata può raggiungere il vescovo, il generale, il presidente, il sindaco, il deputato, il ministro, il giudice, eccetera.

Spesso i gruppi di potere, e le cricche affiliate, reclutano nuovi adepti tra coloro che sono stati vittima della loro arroganza e dei loro avvertimenti. Queste ex vittime entrano così a far parte della cerchia di amici degli amici, una specie di “disonorata società” molto allargata. Da quel momento il nuovo “affiliato” riceverà soltanto benefici, naturalmente non sempre legittimi.

Insomma, la paura di opporsi alle ingiustizie, agli abusi, all’arroganza delle cricche di potere, non crea sviluppo anzi, frena la crescita economica e culturale di un territorio, tenendolo nell’immobilismo. Una società civile che in molte circostanze tace anziché parlare, chiude gli occhi anziché denunciare, si gira dall’altra parte anziché affrontare le situazioni, rappresenta una ricca prateria al servizio di un sistema di potere “non mafioso” che sta diventando sempre più esigente. Non c’è altro modo che ribaltare la dinamica: reagire, con giustizia e senza paura, alle ingiustizie e agli abusi del potere.