Satnam Singh è morto, ma chi sono i mandanti?

22 giugno 2024 | 14:35
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Satnam Singh è morto, ma chi sono i mandanti?

“Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena”

Satnam Singh, 30 anni, operaio senza contratto di lavoro, ha perso un braccio e successivamente la vita. Il bracciante è stato abbandonato davanti alla sua abitazione mentre l’arto tranciato buttato in una cassetta per gli ortaggi. Satnam non è stato soccorso da chi doveva: è stato buttato, come una merce inservibile, come un animale ferito di cui bisogna disfarsi al più presto. Uno schiavo uno dei tanti, centinaia di migliaia, ma sono milioni in Italia se consideriamo tutti gli altri lavoratori sotto pagati e ricattati.

Alessandro Leogrande, nel suo romanzo-inchiesta Uomini e Caporali (2016) ne aveva descritto le vite e le morti. “Lavoratori inquadrati in situazioni di vita e di lavoro addirittura precapitalistiche: alloggiati in ruderi fatiscenti, sono anche sottoposti alle vessazioni, spesso sadiche, dei “caporali”, che offrono il loro lavoro a un mondo delle imprese che se ne serve per comprimere i costi. Talvolta, questi nuovi cafoni, così diversi dai cafoni di ieri, hanno anche difficoltà ad avere pagato quel poco che era stato pattuito. E alle proteste non di rado ci scappa il morto. Una situazione barbarica che flagella come un tumore sociale vaste aree dell’Italia, dove sembra essere del tutto assente lo stato di diritto, e dove vale la sola legge dell’esercizio della violenza bruta.” Leogrande fa emergere, tra l’altro, la tragedia dei braccianti polacchi e africani giunti carichi di speranza in Puglia, nella piana del Tavoliere. Ci racconta di un luogo, il Paradise – il paradiso, una vera beffa –, dove i braccianti vengono schiavizzati, sottoposti a violenze indicibili e persino uccisi. E non si tratta di fatti accaduti un secolo fa, ma all’alba di questo ventunesimo secolo. Quel libro è un documento emblematico di quanto è accaduto e accade oggi in quelle terre di nessuno sparse nel Paese, dove la vita di un uomo o di una donna vale meno di un rifiuto. Terre lontane eppure a ridosso delle città, invisibili allo sguardo di chi non vuole vedere ma soprattutto di chi non vuole capire.

Ecco, quello che colpisce della vicenda di Satnam è la violenza bruta, ingiustificata, inspiegabile. Nessuno sente il lezzo della miseria e nessuno avverte quell’odio silenzioso che ammazza i nostri fratelli venuti da lontano. E’ il disumano che prevale sull’umano, come un divenire necessario, imposto da una cultura, o meglio subcultura del benessere creata in funzione dell’egemonia neoliberista.  Non siamo più Persone, ossia “donne e uomini in relazione, integrati nella rete dei rapporti sociali nel quadro di una consapevole reciprocità”. (M. Revelli, 2020) Siamo Individui, incapaci di essere umani. E diventa difficile oggi separare l’individuo dal denaro. Siamo denaro, siamo consumo, aspiriamo non alla felicità, ma alla ricchezza, anche a costo della vita dell’altro. Abbiamo separato l’umano da noi stessi. E allora cerchiamo di capire.

Il cane che si morde la coda

L’agricoltore che ha commesso quel crimine andrebbe arrestato e condannato. E questo non basta né basterà a mettere a posto le coscienze. La reazione della politica, in casi del genere e in tutti i casi ormai quotidiani di morti sul lavoro è sempre la stessa: più controlli, più sanzioni, bla bla. Adesso si sono inventati la patente a punti per la sicurezza sul lavoro, una stupidaggine. La questione del caporalato, dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura e non solo, ha radici profonde e vaste. Le variabili sono almeno 4: il profitto, il consumo, la competizione mondiale, la povertà. Ci sono troppi poveri perciò i prezzi al consumo non possono superare una certa soglia. Ma anche chi è meno povero, preferisce acquistare prodotti a costi “ragionevoli”. Perciò la grande industria e la grande distribuzione spremono il produttore che a sua volta sfrutta fino all’impossibile il lavoratore. Questa catena di disvalore garantisce i profitti a pochi e produce sofferenza a molti. Tante aziende agricole non possono fare a meno dei servizi forniti dal caporalato. Chi pensa il contrario è un ipocrita. Il caporalato fornisce manodopera a basso costo, carne umana pronta al più estremo sfruttamento. I caporali in molte zone del Paese hanno creato un vero e proprio circuito di affari che va oltre il “pizzo” pagato dall’imprenditore e dagli stessi lavoratori. I caporali guadagnano anche dalla fornitura di generi alimentari e di necessità ai braccianti sistemati in casolari improvvisati, dal trasporto della merce umana da un campo all’altro. Guadagnano sui viaggi della speranza. In molti casi, non meno del 70% della misera paga dei lavoratori finisce nelle tasche di questi criminali.

La grande distribuzione impone i prezzi al produttori i quali spesso sono costretti a scegliere tra la svendita e la distruzione del prodotto. Il ricatto si fa sempre più pesante in presenza della crisi climatica e della disponibilità di produttori esteri a vendere il prodotto a prezzi ancora più bassi. La competizione globale è sul costo della manodopera. Certo, esistono esperienze, come la Rete No Cap, che riesce a fare un prodotto etico: no sfruttamento, non caporalato e prezzo giusto. Speriamo che questo movimento si allarghi ancora di più. Il problema rimane: la maggioranza dei consumatori preferisce, o è costretta a preferire, il prezzo più basso, non il prezzo giusto. Nel 2022 l’aggregato dei maggiori gruppi italiani della Gdo a prevalenza alimentare ha realizzato un fatturato netto pari a 106,2 miliardi (IVA esclusa), di cui 16,4 miliardi in capo a operatori a controllo estero (15,4% del totale). I profitti sono in crescita.

I padroni del cibo

Ma anche loro devono fare i conti con i “padroni del cibo”. Sono una dozzina i padroni del cibo con il potere concentrato nelle mani di un pugno multinazionali che controllano la filiera alimentare mondiale, dalle sementi ai pesticidi, dalla trasformazione industriale alla distribuzione commerciale. “Un pugno di multinazionali dell’agroalimentare controllate da pochissimi e ricchissimi fondi speculativi ha registrato negli ultimi anni profitti record, godendo di sussidi andati a scapito della salute delle persone e dell’ambiente.”

Oggi per ogni euro speso dai consumatori per l’acquisto di alimenti meno di 10-12 centesimi vanno a remunerare il prodotto agricolo mentre il resto viene diviso tra l’industria di trasformazione e la distribuzione commerciale che assorbe la parte preponderante del valore. Il prezzo di un prodotto aumenta quasi sette volte dal campo alla tavola per colpa delle distorsioni e delle speculazioni lungo la filiera anche se la situazione varia da prodotto a prodotto con le situazioni peggiori che si registrano per i prodotti alimentari trasformati.

Riflettiamo

Chi governa tutte le dinamiche intorno alla produzione e al consumo di beni alimentari è il Profitto, non il Mercato, delle multinazionali, dei fondi speculativi, della Gdo, dell’industria della trasformazione. I consumatori preferiscono o sono costretti ad acquistare a prezzi molto bassi. Il mercato mondiale ha globalizzato lo sfruttamento e i meccanismi di ricatto spacciati per variabili della competizione. Le multinazionali decidono chi deve mangiare e chi no, cosa si deve mangiare e cosa non si deve mangiare. Tutto questo lo chiamano libero mercato. L’esecutore materiale del crimine contro Satnam è il suo datore di lavoro che va punito severamente. Il mandante, il responsabile delle morti, dello sfruttamento, delle violenze e degli abusi sui lavoratori ovunque nel mondo, sono i Padroni del mercato globale che fanno profitti grazie al sistema egemonico neoliberista.

Una parentesi lucana

Ogni anno c’è l’emergenza. Arrivano a centinaia, a migliaia, sfruttati, vessati, ricattati. Costretti all’umiliazione di alloggi improvvisati e fatiscenti. Alcuni di loro muoiono. Una storia infinita, vergognosa che dura da 30 anni. Tutti incapaci di trovare una soluzione. E che ci vuole! Ogni anno le associazioni protestano, la Regione promette, i Comuni dichiarano. E ogni anno centinaia di poveri cristi sono costretti a subire le umiliazioni e le “torture” dell’anno precedente. Sarebbe auspicabile una soluzione a titolarità pubblica. I Comuni potrebbero mettere a disposizione gli alloggi vuoti, organizzare un’accoglienza che guardi anche al contrasto dello spopolamento. Magari. Ma qui entrano in campo questioni ideologiche, culturali e anche politiche e di sensibilità umana. Le risorse e le misure finanziabili ci sarebbero. Una soluzione che aiuterebbe molto gli agricoltori e anche le comunità locali. Perché tanta indifferenza, disumanità e cinismo?

Una parentesi italiana

Oggi la narrazione sui migranti, tra pregiudizi, razzismi e convenienze, è tutta centrata sugli interessi. Il calcolo economico e demografico ci spiega per esempio che in Italia tra 20 anni ci saranno 6,9 milioni di lavoratori in meno e quindi servono più migranti. In questo pensiero calcolante, egoistico e utilitarista, scompare l’umanità, si perde il valore della solidarietà e della fraternità. Ma si entra anche in una drammatica contraddizione. Se, come dovrebbe essere auspicabile, i Paesi di provenienza delle braccia utili all’economia a alla demografia italiane ed europee dovessero svilupparsi a loro volta noi saremmo nei guai. Una forte limitazione delle ragioni che costringono milioni di persone ad abbandonare i loro paesi costituirebbe un problema per il reclutamento di manodopera e per il rimpiazzo demografico in Italia. Quindi che si fa, evitiamo di aiutarli in casa loro perché altrimenti avremmo problemi in casa nostra? L’altra narrazione più legata a questioni etniche, identitarie e conservatrici mette al centro il rischio della perdita di identità nazionale e prova a indicare altre soluzioni: niente immigrati, lavoro femminile nazionale, incremento del tasso di natalità interna, attraverso politiche del lavoro e per la famiglia. In questo caso emerge un’insofferenza verso la libera circolazione delle persone, verso l’immigrazione e gli immigrati. Tuttavia le soluzioni, anche qui, restano inquadrate in un pensiero utilitarista, egoistico, nazionalistico. Quando la smetteremo di fare i calcoli e cominceremo a comportarci da esseri umani, forse qualcosa cambierà. Quando finiremo di credere che un morto sia solo un morto e non la conseguenza di un modello produzione e consumo assolutamente ingiusto e disumano, devastante per il futuro, forse qualcosa cambierà. Oggi siamo nella condizione ben descritta in questa sintesi di Tolstoj: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” Questo è il neoliberismo.

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